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In fuga

Verso Castelluccio di Norcia. Sopravvivere ad un bombardamento dev’essere così: fuggire a perdifiato lasciando tutto com’è. Dico dev’essere perché noi non lo sapremo mai: la nonna mi ha raccontato tante volte degli aerei che comparivano dalla collina di Montalcino, e delle corse verso il rifugio e del rombo assordante, così simile a un lunghissimo tuono. E di quando si usciva di nuovo alla luce del sole e alcune case non c’erano più, e alcuni sfortunati non avevano corso abbastanza velocemente. La morte era così vicina, così reale, che quasi smetteva di far paura. E così si andava avanti. Le macerie erano ovunque. Le macerie erano qualcosa a cui ci si abituava. La fuga, il nascondersi, le privazioni, erano qualcosa a cui ci abituava per forza; forza maggiore. Dopo la guerra, i nonni andarono in viaggio di nozze a Milano, dalla Toscana. Quante macerie lungo la strada! I piccoli centri nella campagna, le strade, i ponti; e poi il centro città, anch’esso martoriato: le macer
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San Fermo, ovvero breve e fuggevole visione dell'inferno

Per chi la conosce, per chi la cerca, per chi sa che non si può sfuggirle, la fatica ha un nome: Colli di San Fermo. Non si sale dal lago d'Iseo, il lago è un miraggio lontano, un premio per chi scollinerà dopo 10 km di salita vera. A Grone i cartelli non li mettono a caso, e se dicono 17%, se dicono 18%, se non segnalano alcun tornante, forse è il caso di abbassare la testa e prepararsi a guardare in terra per molti lunghissimi minuti. Ma #ilorddellacontessa conoscono bene questa salita, sulla prima serie di tornanti a fusillo hanno più volte intravisto santi e madonne, e hanno dovuto stringere i denti per sembrare ancora freschi, mentre molti colleghi ciclisti sfrecciavano in senso contrario sfoggiando mantelline e sorrisetti di circostanza della durata di un secondo, il tempo di essere risucchiati dalla discesa vertiginosa, lasciando al loro destino zigzagante e lentissimo chi ha deciso di affrontare questa strada dalla parte della salita. Anni fa ricordo che nel drittone ce

Remembering Stilfserjoch

Lo Stelvio è uno dei miei luoghi preferiti. Uno dei luoghi in cui ho lasciato qualcosa di me, in epoche diverse della mia vita. Perciò mi piace sempre tornarci. Ho imparato presto ad amare queste montagne. All’inizio non sapevo neanche perché, e di cosa esattamente mi ero innamorata. Succedeva credo in settembre, in un periodo di struggente nostalgia per l’estate fuggita via in fretta e per la natura che mi circondava, la natura senza richieste e senza pretese, che bastava a se stessa, in cui avrei voluto mescolarmi per essere invisibile. Non sapevo cosa fosse ad attirarmi così tanto: il cielo terso, l’odore di legna bruciata che preannuncia l’arrivo dell’inverno, l’aria frizzante e i colori, nitidi e chiari alla luce del sole d’autunno: tutto, tutto intorno a me era puro struggimento, una ricerca inesausta, una nostalgia per qualcosa di indefinito e indecifrabile. Salivamo con il pulmino dello sci club e ancora queste curve non avevano il senso che hanno oggi: le pendenze,

Senza uscita. Colle del Nivolet

Quasi in cima, guardando giù. Questa strada non porta da nessuna parte. Si sono dimenticati di finirla. L’asfalto si esaurisce in un ampio pianoro glaciale, poco oltre il confine con la Valle D’Aosta. Ma tutto questo lo vedremo solo tra alcune ore. La valle Orco è lunga, lunghissima e verde, quasi cupa nel sole basso del mattino. I paesi sono in pietra grigia, e ad ogni ponte, ringhiera, cancello, ci sono nastri e cartelli rosa per il passaggio del Giro di un paio di mesi fa. Ora sembra tutto lontano, passato, e non c’è anima viva. La strada è tortuosa e rattoppata alla meglio con badilate di asfalto nero che già sfonda e si prepara a sgretolarsi. Paesaggio, strada, paesi e scritte sull’asfalto sembrano promettere qualcosa di meglio, per chi avrà la pazienza di superare questo fondovalle dalle pendenze ancora dolci. A Noasca finalmente una serie di ripidi tornanti tagliagambe annuncia l’arrivo della salita. Ancora qualche rettilineo ed ecco una galleria, ampia, dall’aria rip

Ritornare ai prati

C’è troppo bianco, qui, per i nostri occhi È troppo ampio l’orizzonte per uno sguardo civilizzato La nostra vita pazientemente costruita incontri e scontri compromessi e tabù aspettative, obiettivi insomma una decorosa vita civile non è pronta a simili scossoni Tornarvi sarà difficile La meraviglia non può lasciare indifferenti La grandezza degli spazi il loro essere fini a se stessi la loro sofferenza silenziosa, anno dopo anno ci attirano e ci chiamano a se come in una trappola Ci adattiamo alla vastità finché cominciano a infastidirci le presenze chiassose le comitive all’orizzonte C’è spazio per tutti, ma noi siamo sempre un po’ più in là Sembra di essere d’intralcio a se stessi Scorriamo sul mare dormiente chiedendoci cosa ci sia sotto immaginando mondi caverne buie Un brivido freddo come quando si nuota sul lago, fissandone l’oscurità opaca non sapendo se quel che c’è sotto potrà mai venire a reclamare vite, corpi e allungando una mano sfiorarci

Essere piccoli

Verso la Guaita. Colere, marzo 2019. Essere piccoli Ci piace molto Riconoscerci laggiù Vederci come sagome Nel bianco Puntini Come errori senza importanza Notare la nostra presenza, laddove non c’è nient’altro Ci piace molto. A volte le parole non vogliono confini Forme precise Forme costrette. Lo stesso vale per noi Le nostre sagome sono indistinte: Inconsistenti Bellissime. Essere piccoli Ci piace troppo, per non continuare a esserlo Riconoscere il nostro passaggio Avvertirne le tracce Seguirle fino all’ultimo Scoprirsi vulnerabili, risibili, una presenza in fin dei conti superflua Chissà perché ci fa sentire meglio. Essere piccoli ci piace troppo: Non facciamo nemmeno in tempo ad averne paura. Laghetto di Polzone, Colere, marzo 2019.

Oltre il confine: Slovenia tour

La 'vetta' del Monte San Michele con i resti delle trincee della I°GM. Dal Monte San Michele si vede il mare. Se il monte potesse parlare, direbbe che il mare è irrimediabilmente lontano. Che era solo un’illusione, il mare da quassù. In cima al Monte San Michele non c’è nemmeno un albero: non ne è rimasto nessuno. Le pietre sono bianche e taglienti, finalmente pulite alla luce del sole, lavate da cent’anni di pioggia, giorno dopo giorno. Chissà come doveva essere, buttarsi in mezzo a questa pietraia e a questi sterpi, chissà come doveva essere strisciare tra i corpi, adagiarsi sulla terra sperando di salvarsi, chissà quante cose indicibili proprio qui dove ora camminiamo in un silenzio irreale, ridicoli figli del nostro tempo in divisa da bici. Scatto fotografie e non so il perché. Il venticello è piacevole, e attraversa gli arbusti con un fruscio dolcissimo. Non c’è nulla da fotografare. Che poi il San Michele, con i suoi 275 metri, non è neanche un vero mont