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In fuga

Verso Castelluccio di Norcia.

Sopravvivere ad un bombardamento dev’essere così: fuggire a perdifiato lasciando tutto com’è. Dico dev’essere perché noi non lo sapremo mai: la nonna mi ha raccontato tante volte degli aerei che comparivano dalla collina di Montalcino, e delle corse verso il rifugio e del rombo assordante, così simile a un lunghissimo tuono. E di quando si usciva di nuovo alla luce del sole e alcune case non c’erano più, e alcuni sfortunati non avevano corso abbastanza velocemente. La morte era così vicina, così reale, che quasi smetteva di far paura.
E così si andava avanti.
Le macerie erano ovunque. Le macerie erano qualcosa a cui ci si abituava. La fuga, il nascondersi, le privazioni, erano qualcosa a cui ci abituava per forza; forza maggiore.
Dopo la guerra, i nonni andarono in viaggio di nozze a Milano, dalla Toscana. Quante macerie lungo la strada! I piccoli centri nella campagna, le strade, i ponti; e poi il centro città, anch’esso martoriato: le macerie comparivano ovunque, persino i grandi magazzini de La Rinascente e la Galleria Vittorio Emanuele erano stati colpiti nel bombardamento dell’agosto 1943. Le macerie lambivano il Duomo, la città era un fermento di cantieri, ponteggi e ricostruzione.
La periferia non esisteva ancora, i paesi avevano i loro confini; presto il boom economico li avrebbe cancellati, popolandoli di grandi palazzi con balconi e finestre squadrate, lanciati verso il cielo chiaro, specchio del futuro di rinascita in tempo pace.
Sono passati più di cinquant’anni da quel viaggio a Milano. Nessuno tra noi ricorda le macerie, nessuno, camminando languidamente tra le vetrine, può ricordare i vetri rotti, i mattoni, le pietre, i pilastri divelti, e il dolore.
Del mondo che va in frantumi, nessuno ha diretta memoria.


L'Aquila e le sue gru.

È difficile fare i conti con una simile mancanza di consapevolezza, nonostante sia una mancanza incolpevole: siamo figli del nostro tempo.
Così, quando nuove macerie si ripresentano di fronte a noi, reali, prepotenti, invadenti, rimaniamo spiazzati. La verità è che di fronte alla distruzione non sappiamo cosa fare e cosa dire.
La guerra è lontana, ma loro compaiono all’improvviso, in mezzo alla natura spavalda e rigogliosa, tra vaghi profumi di macchia mediterranea.
Pietre chiare, in grandi cumuli a bordo strada.
All’interno si riconoscono oggetti quotidiani, nelle crepe compare il bagno di casa, le piastrelle lucide e lo specchio ancora intatto. Avanziamo sulla strada grigia, tutta onde e crepe, tutta deviazioni e lavori in corso.


Campotosto.

Dove non c’è distruzione, gli edifici stanno interi e muti, come se di punto in bianco tutti fossero scappati. Belle villette, giardini un tempo curati giacciono nell’abbandono. Un abbandono certo forzato: le persone ci sono ancora, si sono solo spostate: di qualche metro, in un container con finestre, per chi aveva un po’ di giardino; di qualche chilometro, in casette monopiano prefabbricate color giallo oro, per gli altri.
Spazi squadrati, attaccati gli uni agli altri, una veranda e uno spazio verde dove mettere due fiori, due piante di pomodoro, un cagnolino, uguali per tutti, così nessuno litigherà.
Gli scheletri delle vecchie abitazioni, il centro martoriato, le macerie, sono custoditi dall’Esercito che ferma chi vuole passare nella zona rossa: perché noi siamo curiosi, vogliamo vedere il sangue, nei pilastri divelti e nei muri spezzati cerchiamo le tracce di un orrore che, ne siamo convinti, non ci riguarderà mai completamente.
Siamo spettatori, ci hanno abituati così; e tutto sommato questa condizione ci piace.
Un retropensiero sottilmente piacevole ci dice che siamo solo di passaggio, la devastazione che abbiamo sotto gli occhi non ci appartiene, e non ci seguirà nelle case che molto lontano da qui ci attendono.


Il Piccolo Tibet.

Una nuova consapevolezza si fa strada.
È ancora una volta la natura senza colpa a ricordarci il primato del mutamento sopra ogni costrutto umano. Le cose cambiano fin troppo in fretta, bisogna adattarsi, bisogna fare i bagagli e partire, e il fatto che stavolta non sia toccato a noi è un puro caso; e la casualità è un’altra categoria che ci viene ricordata a forza quando crediamo di aver tutto sotto controllo.
Ma la consapevolezza non si può imparare; forse, col tempo, visitando più spesso questi luoghi mutati per sempre, potremmo acquistarne un po’, ogni giorno di più.


Il Gran Sasso dalla strada che sale a Campo Imperatore.

Sulle montagne si addensano nubi nere cariche di pioggia.
I soldati che presidiano la zona rossa si stanno innervosendo. Alcune persone a piedi si accalcano lungo le transenne, allungano il collo per vedere oltre. Oltre non c’è nulla. Una spianata di pietre chiare tornate al loro stato naturale.
Noi arriviamo in bici e la soldatessa ci lancia uno sguardo di fuoco mentre ci fermiamo per decifrare il cartello ricco di divieti di transito. Ce n’è uno per ogni mezzo. C’è anche un cartello con scritto NO-SELFIE. Per la verità non ho fatto nessuna foto. Non è divertente fotografare le ferite altrui. L’hanno già fatto ampiamente i telegiornali, per dovere di cronaca.
Pochi metri più in là, la vita scorre in modo quasi normale: c’è la sagra degli spaghetti all’amatriciana, e molti chioschi vendono pizze fritte, arrosticini, pecorino e birre artigianali. È pieno di bambini, gente e risate. Le macerie ci guardano, e grazie alla burocrazia italiana lo faranno ancora per molto tempo, ma in questo preciso momento, un festoso pomeriggio di fine agosto, nessuno ha davvero voglia di pensarci.


Ultimo sguardo a Castelluccio prima della discesa verso Norcia.



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