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Visualizzazione dei post da 2018

Oltre il confine: Slovenia tour

La 'vetta' del Monte San Michele con i resti delle trincee della I°GM. Dal Monte San Michele si vede il mare. Se il monte potesse parlare, direbbe che il mare è irrimediabilmente lontano. Che era solo un’illusione, il mare da quassù. In cima al Monte San Michele non c’è nemmeno un albero: non ne è rimasto nessuno. Le pietre sono bianche e taglienti, finalmente pulite alla luce del sole, lavate da cent’anni di pioggia, giorno dopo giorno. Chissà come doveva essere, buttarsi in mezzo a questa pietraia e a questi sterpi, chissà come doveva essere strisciare tra i corpi, adagiarsi sulla terra sperando di salvarsi, chissà quante cose indicibili proprio qui dove ora camminiamo in un silenzio irreale, ridicoli figli del nostro tempo in divisa da bici. Scatto fotografie e non so il perché. Il venticello è piacevole, e attraversa gli arbusti con un fruscio dolcissimo. Non c’è nulla da fotografare. Che poi il San Michele, con i suoi 275 metri, non è neanche un vero mont

Dolomiti 2018

Le Dolomiti non hanno mai pace. Invase, pervase, attraversate, costruite; e soprattutto assaltate, come cent’anni fa, ma da un esercito pacifico, lento, confuso. Ci sono le moto, il raduno di auto d’epoca, la gara di regolarità, il giro dei passi in Vespa, il pullman che intasa la strada, altre moto in sorpasso, ciclisti cadaverici coperti come in inverno, ciclisti tiratissimi e depilatissimi piantati e zigzaganti come un pensionato qualunque, ciclisti sfreccianti che non tiguardano nè ti salutano perché concentrati in un Giro d’Italia del tutto personale, di cui nessuno fuori sa nulla. E poi ci sono i Lord: sparpagliati lungo la salita, senza pietà per nessuno, danno tutto e anche oltre, per onorare la maglia, anche quando la tolgono per legarla alla meglio sul manubrio. Spesso i loro contakm non funzionano, o funzionano a tratti, e se li vedete in difficoltà è perché molto probabilmente sono impegnati nella digestione di un panino speck e gorgonzola e di una weissbier. Capita

Vento in faccia

Il vento in bicicletta: la salita invisibile. Sembra di combattere una battaglia che gli altri ignorano, che solo io comprendo. Quelli che incontro pedalano sciolti, il loro viso non porta tracce di sofferenza. Eccole le strade calde della Toscana, e di tutto il sud Italia: un asfalto liscio, lucidato dalla calura estiva, solcato da gobbe e irregolarità che non hanno la durezza delle nostre: quelle che da noi sono crepe qui hanno un aspetto morbido e denso. L'Aurelia se ne va così, ampia, chiara, diritta: ai lati scorrono pini marittimi contorti, di anno in anno sempre uguali a se stessi. Erba alta e seccata dal sole, spighe mosse dal vento, oleandri invadenti si sporgono sulla carreggiata, mi arrivano quasi in faccia, colorati, veloci. Ogni tanto le case rosse dell'ANAS compaiono e scompaiono nell'ombra, e intorno il rumore del vento e delle cicale. Se lasci l'Aurelia, tentando di fuggire il vento e non riuscendoci mai, appaiono le stradine che vanno nell'ent

Confessione pasquale

Presolana, 1 aprile 2018 Vivo nella comodità. Nella mia tranquilla esistenza di occidentale media capisco di essere privilegiata: non mi manca nulla. Eppure non mi piace abbandonarmi al relax sfrenato, all'abbondanza ricercata e consumata come se non ci fosse un domani. Piatti elaborati, dessert alla fiamma, cioccolato di varie provenienze, frutta esotica arrivata chissà come in un ristorante di una valle sperduta, mentre fuori piove, e dentro al calduccio si mangia e si beve senza curarsi di nulla. È vero, di che cosa ci si dovrebbe preoccupare? Della pioggia che cade nel bosco? Delle bestioline che al buio ne ascoltano il rumore? Lo so, che il nostro posto è dentro, a bere e mangiare e gozzovigliare, so bene che noi possiamo farlo ed è forse nella nostra natura farlo, ma nonostante questo non mi ci posso abituare. Mi sento fuori posto. Resisto per poco, poi il pensiero del fuori mi assale. La nostalgia per la libertà della natura è in me insopprimibile. È una nostalgia c

Ritorno in Val d'Aosta - Tour du Rutor

Ieri ho fatto una cima nuova. Si chiama Rutor. Eravamo io, la mia socia e altri 800 amici. In cima c’è una madonnina. Anzi una statua bella grossa, bianca e girata verso la Val d’Aosta. Qualcuno degli 800 l’ha sicuramente vista ancora prima di arrivare in cima, la madonna, durante la salita a piedi con la corda in mano e gli sci che sbattono contro il casco. Alcuni giurano di aver visto madonne e santi anche dove non c’erano. In cima al Rutor c’è un bel panorama: sarebbe stato bello fare un pic nic, oppure una foto ricordo, ma il vento era proprio troppo forte. Sulla sinistra appare improvvisamente il ghiacciaio: è bianco e striato come un grande mare, e sopra si scorgono alcune persone che camminano in fila, piccolissime e scure in mezzo al bianco. Loro fanno una gita, un po’ come noi. Nello zaino avranno un panino e una birretta. Nel mio zaino oggi ci sono solo pantavento e giacca e una bottiglietta d’acqua vuota. Sete inesauribile e la valle laggiù lontanissima, dopo duemila me