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Oltre il confine: Slovenia tour


La 'vetta' del Monte San Michele con i resti delle trincee della I°GM.


Dal Monte San Michele si vede il mare.
Se il monte potesse parlare, direbbe che il mare è irrimediabilmente lontano. Che era solo un’illusione, il mare da quassù.
In cima al Monte San Michele non c’è nemmeno un albero: non ne è rimasto nessuno. Le pietre sono bianche e taglienti, finalmente pulite alla luce del sole, lavate da cent’anni di pioggia, giorno dopo giorno. Chissà come doveva essere, buttarsi in mezzo a questa pietraia e a questi sterpi, chissà come doveva essere strisciare tra i corpi, adagiarsi sulla terra sperando di salvarsi, chissà quante cose indicibili proprio qui dove ora camminiamo in un silenzio irreale, ridicoli figli del nostro tempo in divisa da bici. Scatto fotografie e non so il perché. Il venticello è piacevole, e attraversa gli arbusti con un fruscio dolcissimo. Non c’è nulla da fotografare.
Che poi il San Michele, con i suoi 275 metri, non è neanche un vero monte.
E la cima non è nemmeno una vera cima, ma un nome sulla mappa. Cima uno, cima due, cima tre.
Gli uomini vivono di nomi e con i nomi fanno le guerre.
Sulla cosiddetta cima del Monte San Michele non cresce più nulla perché troppo è stato distrutto.
A noi che cerchiamo tracce del sangue, viene data solo la visione di una natura beffarda, verde e profumata, una macchia mediterranea che si è fermata per sempre a poche decine di metri da quassù.
Una comoda terrazza, costellata di cippi con iscrizioni di epoche diverse, una per tutti gli anniversari che in cento anni si sono susseguiti, tenta di “onorare” il “sacrificio” di chi qui è morto; ma qui è tutto troppo grande perché un’onorificenza sia ancora possibile, è tutto troppo assurdo perché delle parole possano essere pronunciate, e a parte le parole dei sopravvissuti, per il resto è meglio il silenzio; un lunghissimo silenzio e un lunghissimo pianto di vergogna per l’insensatezza di una strage.
Duecentomila morti non sono abbastanza? Tutti qui, tra queste pietre chiare, in questa terra nera di sangue; troppi per questa altura, troppi per un confine, disordinatamente mandati all’attacco, ancora e ancora, in un freddo calcolo numerico dalla razionalità cieca, perché come disse una volta Diaz, facendone la logica di un’intera guerra: “La seconda linea si farà scudo della prima”.
L’ampia terrazza panoramica è ricca di iscrizioni dai toni vittoriosi più nauseanti (“La Vittoria l’albero, il Fante il seme”), i cannoni puntano muti verso la campagna, e laggiù in fondo, silenzioso e mite in tempo di pace, scorre ben visibile la Soča, cioè l’Isonzo. Blu e verde, serpeggia per la pianura carsica, appena sceso dalle alture a nord ovest, alture straniere, fitte di boschi verdissimi, incredibilmente vicine. Altri nomi, altri sbagli passati che non ci appartengono più, sotto un cielo azzurro che forse nemmeno meritiamo.
Ieri abbiamo seguito la Soča pedalando come forsennati su una lunga statale in falsopiano: il fiume compariva e scompariva, quasi senza scorrere davvero, somigliando a tratti a un lago, e poi improvvisamente ecco un ponte, un incrocio, cartelli, confusione e macchine e a un certo punto ci si ritrova in Italia.

Ecco l’assurdità di un confine, di ogni confine, servita su un piatto d’argento, chiara e semplice come l’aria del Carso.
Una linea sulla strada, rosso sbiadito, come a Gorizia, o una linea di fil di ferro e filo spinato, come a San Martino del Carso, e infine una linea invisibile nel bosco da qualche parte sopra Trieste, dove una vecchia ferrovia austroungarica è oggi una via ciclopedonale, da cui il nostro viaggio è partito; una via che parte asfaltata in mezzo alle case per divenire poi sterrata e selvaggia e portarci, senza accorgercene, direttamente in Slovenia.
Qui la linea di confine è persa tra gli arbusti, segnalata da un cartello ma non visibile, impalpabile e senza forma e quindi, forse, irreale.
Attraversarla in bici dà l’impressione di entrare in terra straniera per vie traverse, come fuggiaschi in una foresta senza fine.
L’assurdità di un confine: una lezione compresa solo l’ultimo giorno, e che valeva tutto il viaggio fin qui. Partire da Trieste e tornare a Trieste, per vie diverse, tutte altrettanto libere come solo una pedalata in bicicletta può essere.
Mi piace pensare che tutto questo si sia svolto sotto una sola bandiera, la bandiera blu piena di stelle dell’Europa unita. Non più sotto una o due o tre bandiere diverse, quelle bandiere puramente nazionali in nome delle quali l’Isonzo e il Monte San Michele sono stati inondati di sangue, solo per spostare di pochi chilometri un confine.
Oggi quel confine è tornato ad essere una mera linea sulla mappa, che noi attraversiamo col vento in faccia e il sole in fronte, sperando che l’esercizio della nostra libertà di europei possa in qualche modo onorare, redimere, donare un senso al passato incancellabile, e magari insegnarci a diffidare per sempre di confini e muri, di nazioni e bandiere, per non ricaderci in futuro; per non ricaderci domani, oggi, adesso.
Per questo tornare a Trieste attraverso il Carso un tempo martoriato è stata la conclusione necessaria, per quello che era un semplice viaggio di piacere in sella ad una bicicletta.
A volte i racconti iniziano dalla fine, come quando un cerchio si chiude.
500 km di strade slovene semideserte, laghi e foreste, natura fresca e soverchiante, molto più forte e molto più bella di ogni stupido capriccio umano; a due passi da casa, dietro il confine, oltre quella linea assurda che non esiste più.

Solo se si hanno occhi per vederlo, dal Monte San Michele si vede il mare.
È lontano, blu e bellissimo come la libertà di ognuno di noi di saltare di nuovo sulla bici e andarsene giù per la strada tortuosa che scende a San Martino, lasciandosi attraversare dall’aria salmastra, fuggendo da questi sassi bianchi, dalla morte che grida vendetta, fuggendo via per sempre da ogni confine.


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Trieste.

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