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Remembering Stilfserjoch





Lo Stelvio è uno dei miei luoghi preferiti.
Uno dei luoghi in cui ho lasciato qualcosa di me, in epoche diverse della mia vita.
Perciò mi piace sempre tornarci. Ho imparato presto ad amare queste montagne. All’inizio non sapevo neanche perché, e di cosa esattamente mi ero innamorata. Succedeva credo in settembre, in un periodo di struggente nostalgia per l’estate fuggita via in fretta e per la natura che mi circondava, la natura senza richieste e senza pretese, che bastava a se stessa, in cui avrei voluto mescolarmi per essere invisibile.
Non sapevo cosa fosse ad attirarmi così tanto: il cielo terso, l’odore di legna bruciata che preannuncia l’arrivo dell’inverno, l’aria frizzante e i colori, nitidi e chiari alla luce del sole d’autunno: tutto, tutto intorno a me era puro struggimento, una ricerca inesausta, una nostalgia per qualcosa di indefinito e indecifrabile.
Salivamo con il pulmino dello sci club e ancora queste curve non avevano il senso che hanno oggi: le pendenze, i tornanti, i km contati metro per metro. Non era quello il tempo della fatica, non ancora.
Il pulmino saliva comodamente, il panorama scorreva veloce con la musica nelle orecchie.
Dopo il primo tratto immersi nell’ombra blu delle rocce, dai finestrini si apriva improvvisamente la valle del Braulio, ancora illuminata dal sole, grandissima, deserta, e coperta di erba del colore dell’oro; ecco la vecchia cantoniera rossa e il monumento militare, e dopo un attimo, a metà del falsopiano, già intravedevi gli impianti e gli alberghi del passo avvolti dalle nuvole pomeridiane, agglomerato di edifici informi che parevano gettati lassù a caso, tra i sassi. Era uno spettacolo maestoso, ancor più quando intravedevi la neve, la stanca neve sofferente dell’estate 2003, la più calda della storia. L’assurdità di quelle costruzioni, dei piloni e della funivia che si librava nell’aria per scomparire nelle nebbie, era evidente, e quella contraddizione mi attirava.
Il piazzale grigio e spoglio, gli edifici dismessi, ricordi di un passato glorioso con molta più neve e molta più gente a fare la settimana di sci estivo. Salivamo sulla vecchia funivia carichi di borse e zaini, sci e bastoni, e anche quella era una contraddizione: sotto di noi la pietraia tardava a trasformarsi in neve, dai finestroni opachi dell’enorme cabina si intravedeva il primo ski-lift arrampicato sulla roccia, con il manto nevoso inesorabilmente troppo basso, solcato da una selva di crepe regolari.
Bisognava salire un po’ più su.
Allora si poteva vedere la punta inconfondibile della Geisterspitze ergersi in cima al ghiacciaio, precisa sulla linea delle ancore, continuamente nascosta dalle grandi nuvole pomeridiane che a sera si dissolvevano lasciando il cielo pulito e sereno. Dopo cena uscivo sulla terrazza del Livrio e osservavo la linea dell’orizzonte farsi viola e poi azzurra e poi blu, guardavo le valli ormai avvolte nell’oscurità mentre le cime oltre i duemila metri respiravano ancora l’aria rosata della sera. Non sapevo che su molte di quelle cime avrei messo piede un giorno non lontano.

Così rientravo nella sala carica di sentimenti contrastanti e idee di fuga.
Avrei voluto che mi dimenticassero lassù, in una stanzetta metallica del rifugio in un giorno d’autunno. Sarebbe arrivata molta neve a bloccare la strada e tutto il mondo che là fuori, giù a valle, si aspettava qualcosa da me. Ad esempio che a metà settembre tornassi a scuola, e a un’esistenza in cui non capivo il mio posto e la mia funzione. E tutto questo mentre lassù la neve si accumulava, metro dopo metro, e oggetti, mobili, cose riposavano in stanze chiuse per mesi e mesi, senza essere reclamati da nessuno.
Tornata a casa, guardavo le webcam ogni giorno. Aspettavo la prima neve di novembre. Sarebbe stata lei a decidere quando chiudere la strada: poi, tutti a valle. L’inquadratura preferita era quella proprio sullo scollinamento: lì potevi vedere l’inverno accanirsi contro le cose umane, sbeffeggiarle e deriderle, e infine vincerle; di quella vittoria cercavo le tracce ogni giorno, esultavo come fossero mie; avrei voluto tanto essere così, essere pura natura, essere neve e vento e acqua che scorre.
Ecco i negozi di souvenir sprangati, al sole arancio del tramonto; gli stessi negozi incrostati di neve fin quasi al tetto, presto invisibili. I giochi del vento sul manto bianco, i giorni di bufera, altri tramonti meravigliosi non visti e non fotografati da nessuno.
L’inverno è lungo, la neve cresce, e le giornate si susseguono brevi e quasi uguali. Poi, improvvisamente, un giorno di primavera compariva sempre qualcuno: una figura umana si staglia nel deserto bianco, all’altezza dei tetti, lasciandosi dietro le tracce degli sci; la webcam lo immortala mentre si guarda intorno quasi confuso. Forse è il primo di quest’anno; altri seguiranno. Anche la primavera è lunga ma forse passa il Giro, e allora arriveranno gli spazzaneve, taglieranno il manto come fosse un semifreddo alla panna, e dopo qualche giorno l’asfalto rivedrà prepotentemente la luce, troppo presto.

La prima volta che sono salita in bici, molti anni dopo, avevo un cancello di acciaio ed ero anemica. La salita non finiva più. Alla prima cantoniera un pullman di anziani mi fece un tifo da stadio. Io ero devastata. Non pensai neanche per un secondo di mettere il piede a terra. Non capivo perché facessi così fatica, ma pensavo comunque di meritarmelo.
Gli anni successivi, ripristinati i livelli di ferro ed emoglobine, la salita mi sembrò un’ascesa agile, divertente, qualcosa da superare per andare ancora oltre. Si può salire da Bormio, scendere in Svizzera e risalire dal versante di Prato; superare i tornanti, guardare giù chi ancora sale, contare i metri e misurare lo sforzo per non fare troppa fatica e godersi il viaggio: tutte cose che proprio non immaginavo, una felicità e una pienezza che non credevo possibili, concentrata com’ero nella fuga da non si sa che.
Oggi, quando arrivo qui in bici, guardo in alto verso la funivia, le nuvole, la neve nascosta e stanca, e mi ricordo della ragazzina che voleva fuggire da tutti e nascondersi nell’inverno. Una parte di me è ancora in quella stanzetta metallica, pitturata di rosso carminio, con la finestra dai doppi vetri rivolta verso l’Ortles; guarda l’orizzonte e aspetta qualcosa.
Così, ogni volta che torno qui rendo omaggio alla mia adolescenza inquieta, votata alla ricerca di un senso sempre sfuggente.




Il passo è affollato, ciclisti in mantellina, macchine d’epoca, e bambini carichi di bagagli che vanno a sciare proprio come facevo io. Oggi, molti anni dopo, me ne sto con i gomiti sul manubrio sotto il cartello del passo, a sentire la fatica sciogliersi e scomparire, e l’endorfina inondare il corpo come acqua che scorre.
Forse era questo che mi mancava così tanto in quei giorni inquieti di settembre: una vita vera a cui tornare una volta scesi di qua, un racconto e una biografia che mi piacesse, in cui rispecchiarmi senza paura; quel che mi mancava allora, nel modo così struggente e crudele come solo l’adolescenza sa essere, è oggi qui tra le mie mani, nelle mie gambe, nella mia testa ormai adulta. Il cielo si copre, l’aria è fredda, segno che l’estate presto finirà: scappo in discesa come un fulmine, col vento in faccia, nei tornanti sinuosi dove la bici sembra danzare da sola, e poi oltre la cantoniera dell’Umbrailpass giù in picchiata nel lungo falsopiano ancora verde, una fuga precipitosa, un puntino colorato sull’asfalto grigio che scappa senza guardarsi indietro, verso l’autunno, verso l’inverno, finalmente libera.


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