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Senza uscita. Colle del Nivolet

Quasi in cima, guardando giù.

Questa strada non porta da nessuna parte.
Si sono dimenticati di finirla. L’asfalto si esaurisce in un ampio pianoro glaciale, poco oltre il confine con la Valle D’Aosta.
Ma tutto questo lo vedremo solo tra alcune ore.
La valle Orco è lunga, lunghissima e verde, quasi cupa nel sole basso del mattino.
I paesi sono in pietra grigia, e ad ogni ponte, ringhiera, cancello, ci sono nastri e cartelli rosa per il passaggio del Giro di un paio di mesi fa. Ora sembra tutto lontano, passato, e non c’è anima viva.
La strada è tortuosa e rattoppata alla meglio con badilate di asfalto nero che già sfonda e si prepara a sgretolarsi. Paesaggio, strada, paesi e scritte sull’asfalto sembrano promettere qualcosa di meglio, per chi avrà la pazienza di superare questo fondovalle dalle pendenze ancora dolci. A Noasca finalmente una serie di ripidi tornanti tagliagambe annuncia l’arrivo della salita. Ancora qualche rettilineo ed ecco una galleria, ampia, dall’aria ripida e poco amichevole; fortunatamente sulla sinistra corre la strada vecchia, su un tappetino di asfalto nuovo.
Qui la valle si trasforma di netto: diviene più selvaggia, la vegetazione cambia aspetto e compaiono larici, pini, ed enormi rocce a strapiombo su di noi: sono gigantesche e hanno forme morbide, levigate da milioni di anni. La valle si stringe come un canyon fino a far passare solamente il fiume e la nostra esile stradina, che sale ripida e arrampicata sul lato destro della montagna. Sotto, oltre lo strapiombo, l’acqua scorre fragorosa, fresca, e sguardo si perde nelle pozze color smeraldo prima di tornare di nuovo all’asfalto scuro. Ogni tanto compare un’apertura sulla galleria, con la penombra arancione e il rombo delle macchine. Per fortuna non l’abbiamo presa. Dove siamo noi si sente solo il rumore dell’acqua, della ruota che spinge e della fatica, con il manubrio viscido e i tornanti troppo ripidi per lasciar riposare. Ancora una curva e la strada spiana: la valle si apre in corrispondenza di un paradisiaco praticello punteggiato di ombrelloni, tavoli, sedie, area camper, bar.
Poi finalmente il lago. Altre immagini paradisiache, ma non è il momento. Finalmente la salita è iniziata. Il paesaggio non c’entra nulla con quello della partenza. Ora siamo in montagna, e la strada è il solito serpente grigio che attraversa prati, costeggia malghe, e si immerge in un panorama sempre più ampio e grandioso.


C’è della neve là in alto. Più ci si avvicina, più diventa abbagliante. La salita è regolare, le pendenze pedalabili, le curve divertenti. Tutto intorno a noi è sempre più grande, più aperto. Ho sempre amato queste ascese perché più si sale e più si arriva all’essenziale. Niente più alberi, niente più confusione, niente cartelli, nessuna altra strada o bivio a distrarti. La strada che sale è l’unica cosa da seguire. Compare la gigantesca diga del lago Serrù. Da qui in poi compariranno anche gruppetti di camminatori della domenica che hanno parcheggiato nei pressi del lago per proseguire gli ultimi km a piedi fino al Colle. Fanno foto con i rimasugli di neve a bordo strada, muri bianco sporco, unico segno dell’inverno passato. Bambini troppo coperti, iperattivi dopo troppe ore in auto, tentano più volte di infilarsi tra le ruote dei ciclisti.
Ancora un paio di tornanti ed ecco uno scollinamento: nuovi scenari si schiudono, un altro lago compare all’improvviso assieme a un’altra diga su cui la strada passa senza scomporsi, ordinata, per poi perdersi di nuovo in mille tornanti e ricominciare a salire. L’acqua è blu scurissimo, calma, la conca è così grande e l’aria così fresca che ad ogni respiro sembra di assimilarne un po’. Come una sorsata fresca alla fontana dopo molte ore di sete.
La strada si sposta su un versante della montagna da cui si vede bene il serpente grigio appena percorso, su cui ora minuscole figure traballanti avanzano lente, intrappolate nel limbo senza tempo della fatica.
Qua in alto si sente già profumo di libertà. Altri incontri con pedoni in mezzo alla strada, confusi ed estasiati dalla vista. Ogni tanto si incrocia il pericoloso bus navetta che procede incurante della strada stretta e delle curve a picco. Sento chiaramente che siamo arrivati. Ultima curva, breve rettilineo che guarda verso il cielo, e a fianco un modesto cartello, tempestato di adesivi. L’immagine di ogni passo, la fotografia mentale che ognuno dentro di sé immagina e pregusta mentre sale. La strada scollina: al di là si apre un nuovo mondo. Una breve discesa con qualche curva e poi un rettilineo che si perde in un ampio pianoro verdissimo, costeggiando l’ennesimo lago.
Questa strada non porta da nessuna parte. È una burla, un bluff.
Scendiamo come attratti da una forza esterna, e in un attimo siamo al Rifugio Savoia.
Tripudio di turisti a passeggio con calzettoni al ginocchio e racchette.
Andiamo oltre, proseguiamo lungo il lago. Voglio proprio vedere dov’è che finisce, e come fa una strada a finire così. La gente sembra andare tutta in quella direzione, in una marcia inconsapevole verso il nulla. Il fondo è sempre più dissestato, l’asfalto è grigio chiaro e ha visto molti inverni.
Una sbarra, un cartello informativo con gli stemmi valdostani, e l’asfalto finisce. Non ci sono ulteriori spiegazioni. Dopo la sbarra, la strada è una mulattiera compatta e sassosa.
In fondo tutte le strade erano così, prima, e certo proseguendo a piedi si arriverà da qualche parte (per l’esattezza a Pont Valsavarenche). Ma ora non si può.
Nello stesso momento, sulla destra, compare il profilo arrotondato e impacchettato di neve del Gran Paradiso. Una distanza notevole ci separa. Mi torna in mente quel giorno di aprile in cui il vento soffiava forte e su quel panettone in mezzo alla bufera, a metà salita, non avevo avuto dubbi ed ero tornata indietro alla velocità della luce, con gli sci che sbattevano sulla neve gelata. Tornare sui propri passi può essere più o meno semplice.
Così anche stavolta non resta che girare la bici e tornare da dove siamo venuti.
La discesa è divertente, tortuosa e sempre sul filo per colpa del già citato bus navetta e dei motociclisti che come al solito credono di essere in pista, nonché delle auto che sembrano avere la stessa fretta del lunedì mattina in città. E poi ci sono i colleghi ciclisti in salita, incredibilmente numerosi e terribilmente affaticati. Ci guardano con aria afflitta, alcuni con zainetti improvvisati, più di uno chiede quanto manca; ma rispondere in una frazione di secondo, mentre si sfreccia in discesa, è quasi impossibile, per cui a uno grido ‘un po’’ a un altro ‘non so’, e poi vorrei dirlo anche a loro che questa strada non porta da nessuna parte, ma forse è meglio di no, e poi chissà, forse lo sanno già; ci sono già tante finte e tanti bluff a questo mondo, così come molte altre strade, ben più brutte di questa, che non portano a nulla.
Perciò continuo a scendere sull’asfalto irregolare: avvallamenti, crepe, buche, curve, la bici sembra un cavallo imbizzarrito, ci sono motociclisti in mezzo alla carreggiata, ghiaietta insidiosa, insetti a duecento all’ora contro il casco e la maglietta.
Arrivare in fondo sani e salvi è come sempre un esercizio di concentrazione e di fortuna, un gioco in cui noi siamo pedine leggere e insignificanti; un gioco come la fatica a cui volontariamente ci sottoponiamo per arrivare quassù e poi tornare a casa, come se niente fosse; un gioco che ci piace un sacco.
Che poi, in realtà, siamo davvero contenti solo quando la fatica finisce.

Commenti

  1. 14 Luglio 2019 ero li anch'io in bicicletta tra una miriade di ciclisti, posto spettacolare specialmente la parte finale in alto dopo la diga.
    Concordo pienamente con il tuo bellissimo commento.
    Ciao.

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