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Presolana, 1 aprile 2018 |
Vivo nella comodità.
Nella mia tranquilla esistenza di occidentale media capisco di essere privilegiata: non mi manca nulla. Eppure non mi piace abbandonarmi al relax sfrenato, all'abbondanza ricercata e consumata come se non ci fosse un domani. Piatti elaborati, dessert alla fiamma, cioccolato di varie provenienze, frutta esotica arrivata chissà come in un ristorante di una valle sperduta, mentre fuori piove, e dentro al calduccio si mangia e si beve senza curarsi di nulla. È vero, di che cosa ci si dovrebbe preoccupare? Della pioggia che cade nel bosco? Delle bestioline che al buio ne ascoltano il rumore? Lo so, che il nostro posto è dentro, a bere e mangiare e gozzovigliare, so bene che noi possiamo farlo ed è forse nella nostra natura farlo, ma nonostante questo non mi ci posso abituare.
Mi sento fuori posto. Resisto per poco, poi il pensiero del fuori mi assale. La nostalgia per la libertà della natura è in me insopprimibile. È una nostalgia che non potrà mai in alcun modo risolversi: dev'essere il residuo della nostra esistenza inorganica, del nostro essere, in fondo, enti naturali che alla natura da cui si sono staccati tentano nuovamente di assimilarsi. Il cibo che arriva già sul piatto, la sua abbondanza e complessità, mi appare spesso nauseante nel suo essere semplicemente in più, di troppo; qualcosa di immeritato, che non ha ragion d'essere.
Eppure ognuno è libero di fare quel che vuole, di andare dove gli pare, e non c’è proprio nulla di male. Lo faccio anch’io, del resto. Si sceglie con cura la strada da prendere e le sbarre in cui chiudersi, per apparire vincenti, amanti della bella vita, quella a buon mercato della classe media; apparire non noiosi, ma liberi e soddisfatti, capaci di godersela in modi che tutti approvano. Di fronte a questo scenario, la mia mite attrazione per il bosco notturno, per le albe gelide e silenziose, per i luoghi lontani e solitari, per le cose più semplici e tranquille, appare giustamente ridicola e fuori luogo, fuori tempo, incomprensibile. Meglio tenerla nascosta a chi non può capire.
Stanotte sentivo la pioggia battere sul tetto e sapevo che sarebbe caduta anche in mille posti diversi non troppo lontani da qui; e forse in alto sarà neve e non farà nessun rumore.
E mi sono ricordata di quella volta che sono uscita dal camerone dove tutti dormivano, in una ventosa notte di aprile sul Gran Paradiso: la montagna mi guardava in silenzio, era chiara, nitida e trasparente nell’aria gelida. Non voleva nulla, non chiedeva nulla, e tuttavia era disposta a uccidermi se avessi indugiato ancora un po’ sulla soglia. Nel cielo a fianco a lei un’unica nuvola passava davanti alla luna, e la luna abbagliante e riflessa nella neve rendeva azzurro tutto il paesaggio. C’erano ancora molte ore per dormire ma io non sarei più rientrata.
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