Ultreya viene dal latino. E’ il tipico saluto del pellegrino, e significa qualcosa come “Continua ad avanzare, la tua ricompensa è là”.
E infatti eccola là. La cattedrale di Santiago de Compostela ci attende paziente sotto il blu intenso del cielo di dicembre.
Ci si arriva da vie laterali che non lasciano intravedere nulla della grandiosità della piazza. I colori predominanti hanno tonalità calde.
Ma a questa scena manca ancora molto: quattro giorni di cammino da 24, 21, 30 e 41 km.
Cosa sarà mai, per un gruppo di atleti allenati, abituati a ben altre fatiche in sella ad una bicicletta?
Chiaro caso di sottovalutazione.
Crack crack. Sono almeno tre ore che camminiamo su un tappeto di foglie, dentro e fuori dal bosco. È il quarto giorno. Partiti alle 2.30 del mattino per l’ultima tappa, anzi le ultime due tappe da 20 km ciascuna riunite in una sola. Una maratona camminando, che ai miei piedi non piacerà per niente. Ma questo me lo faranno capire solo alla fine di questa lunghissima giornata. Ora siamo ancora nella notte. Quando sorgerà il sole, in questa terra così spostata verso ovest? Crack crack, su e giù dalle colline di una Spagna rurale, dall’aria povera: infiniti km nella campagna tra stalle con mucche, maiali, cavalli, sono inframmezzati dalla comparsa di paesi semi abbandonati pieni di edifici fatiscenti accanto ad albergues (ostelli) nuovissimi, con un’unica strada principale disseminata di insegne di pulperìas, locali dove si mangia il famoso polpo gallego. Ma ora non vediamo niente di tutto ciò: è buio pesto e lo sarà per molte ore ancora. I ragazzi sono dietro, chiacchierano, respirano, qualcuno urla di fermarsi ogni tanto per aspettare chi rimane indietro ad allacciarsi una scarpa, o a sistemarsi lo zaino.
Allora ci si ferma, qualcuno si siede in terra, si lascia lo zaino, si guarda col naso all’insù un incredibile cielo stellato.
Poi si riparte.
Chi meglio di YourBigStories poteva interpretare una sfida come questa, tutta on the road? Lavorare in movimento: alzarsi, camminare, camminare, correre avanti per cercare la luce e l’inquadratura migliore, girare video e scattare foto, camminare ancora, fermarsi a bere una cervecita, camminare ancora, altre foto e altre riprese, mangiare un bocadillo, parlare con i ragazzi, girare interviste volanti, camminare ancora. E una volta raggiunto l’ostello dove si trascorrerà la notte, in un’enorme camerata che ricorda il servizio militare, trovare un posticino abbastanza tranquillo per metter mano al computer e selezionare le foto, montare il video della giornata, scrivere un resoconto da mandare giornalmente ai referenti americani perchè sia usato sui social Polartec.
Il flusso di lavoro di questi giorni è stato all’incirca questo.
Intenso, bello, divertente, una sfida continua, di cui ora rimangono ricordi sottoforma di flash improvvisi, difficili da fermare. Si può provare a darne un resoconto veloce, senza pretesa di esaustività.
Il clima è straordinariamente mite, è dicembre ma sembra aprile, i prati sono verde intenso, e il sole scalda le ossa dopo le partenze all’alba.
Le birre della Galizia sono buone e non costano niente, il caffè si chiama cortado ma se dite solamente cortado ve lo portano macchiato, allora dovete aggiungere solo, mentre se dite solo cafè vi portano una specie di cappuccino. Insomma occorre imparare questa ed altre piccole cose per sopravvivere al Cammino.
Ad esempio che sul Cammino non ci si può perdere, perché a ogni bivio, a ogni svolta che crei il minimo dubbio sulla direzione da prendere, ci sarà un cippo ornato dalla conchiglia simbolo di Santiago, oppure una freccia gialla dipinta a mano. Certo, può anche capitare di mancare una freccia: ad esempio se, come nel caso del nostro Dario, si stanno facendo 100 km con una videocamera in mano, e si è rimasti un po’ indietro, e si sta guardando a terra e pensando a dove spostare il peso ormai insopportabile della suddetta videocamera; e così può capitare di andare dritti a un bivio, non vedere più nessun pellegrino e nessuna freccia, avere dei dubbi, e quindi chiamare qualcuno del gruppo e rendersi conto di aver sbagliato; e tornare poi, molti minuti dopo, sulla retta via.
Può anche capitare di perdere il senso del tempo, ad esempio quando si inizia a camminare a notte fonda, e si attraversa la campagna avvolta dalla bruma e silenziosa finché improvvisamente un cane abbaia nel buio in qualche stalla ancora lontana, e quando gli si arriva vicino il cane viene incontro agitando la coda come se non vedesse nessuno da anni; e ritornato il silenzio, passando a fianco ad altre stalle, si può sentire il rumore ansimante delle bestie che respirano all’interno, nel buio, e l’odore acre del letame.
E poi passare oltre. Così per molte ore, seguendo il fascio di luce della pila alla ricerca di frecce gialle o simboli che certifichino che siamo sulla strada giusta.
Da quanto stiamo camminando ormai? Il sole dovrebbe già sorgere, ma nessun chiarore all’orizzonte.
Finalmente, ad un incrocio, ecco il furgoncino della Fundaciòn, dove Rafa ci aspetta con panini o altri generi di conforto.
Lo salutiamo come una visione paradisiaca. I ragazzi lasciano lo zaino e si siedono in terra lì dove si trovano. Poi vanno a prendere ciò che gli spetta: una mela, una banana, biscotti, oppure, a colazione, latte e cereali. E se è ora di pranzo, un succulento panino appena preparato.
Poi si riparte.
I ragazzi si rimettono in marcia, parlano tra di loro e a quelli nuovi, spesso stranieri, insegnano un po’ di spagnolo, e ogni tanto si sentono parlare molte lingue mischiate assieme e molte risate, che a ben vedere non hanno nazionalità.
Molte sfide li attendono nella prossima stagione, e, ovviamente, nella vita in generale. Ma ora no. Questo sembra essere un tempo speciale offerto loro per capire meglio alcune cose, per riflettere sui concetti di difficoltà, cammino, gruppo, fatica, impegno. E questo esperimento, voluto dai Direttori Sportivi dal Team Manager Francisco Contador, sembra funzionare bene.
Da quanto stiamo camminando ormai? Il sole dovrebbe già sorgere, ma nessun chiarore all’orizzonte.
Finalmente, ad un incrocio, ecco il furgoncino della Fundaciòn, dove Rafa ci aspetta con panini o altri generi di conforto.
Lo salutiamo come una visione paradisiaca. I ragazzi lasciano lo zaino e si siedono in terra lì dove si trovano. Poi vanno a prendere ciò che gli spetta: una mela, una banana, biscotti, oppure, a colazione, latte e cereali. E se è ora di pranzo, un succulento panino appena preparato.
Poi si riparte.
I ragazzi si rimettono in marcia, parlano tra di loro e a quelli nuovi, spesso stranieri, insegnano un po’ di spagnolo, e ogni tanto si sentono parlare molte lingue mischiate assieme e molte risate, che a ben vedere non hanno nazionalità.
Molte sfide li attendono nella prossima stagione, e, ovviamente, nella vita in generale. Ma ora no. Questo sembra essere un tempo speciale offerto loro per capire meglio alcune cose, per riflettere sui concetti di difficoltà, cammino, gruppo, fatica, impegno. E questo esperimento, voluto dai Direttori Sportivi dal Team Manager Francisco Contador, sembra funzionare bene.
Ultreya potrebbe anche essere un invito a non fermarsi mai nella ricerca, un principio interiore più che spirituale: l’invito molto filosofico ad andare, guardare, puntare, sempre oltre.
Dopo quattro giorni in costante e autonomo movimento, spostarsi con altri mezzi diversi dalle proprie gambe sembra un’esperienza nuova, impossibile, ai limiti della legalità. Eppure è necessario.
È il giorno dell’arrivo: dopo 10 ore abbondanti di cammino e 41 km, siamo a Santiago de Compostela.
Uscita dall’ufficio di accoglienza del pellegrino, mi trascino dolorante sulla strada acciottolata con in mano la Compostela, curioso diploma in latino che attesta la veridicità di questi giorni a piedi, e li certifica, nero su bianco.
Dopo quattro giorni in costante e autonomo movimento, spostarsi con altri mezzi diversi dalle proprie gambe sembra un’esperienza nuova, impossibile, ai limiti della legalità. Eppure è necessario.
È il giorno dell’arrivo: dopo 10 ore abbondanti di cammino e 41 km, siamo a Santiago de Compostela.
Uscita dall’ufficio di accoglienza del pellegrino, mi trascino dolorante sulla strada acciottolata con in mano la Compostela, curioso diploma in latino che attesta la veridicità di questi giorni a piedi, e li certifica, nero su bianco.
I ragazzi sono felici. Sembrano un po’ sorpresi di essere stati vinti da questo nuovo genere di stanchezza, che prende tutti una volta raggiunto l’ostello, e che peggiora una volta essersi rilassati dopo la doccia. Non è il consueto mal di gambe post bici.
Nessuna delle cose fatte in questi giorni era nuova; eppure è stata un’esperienza unica.
Camminare per ore al buio, sentendo solo i passi e lo scricchiolare delle foglie, mi era già capitato.
Camminare per ore, con uno zaino pesante: quante volte, in montagna?
Camminare in gruppo, scambiarsi battute, ridere, rimanere indietro e correre avanti, scherzare; dormire tutti insieme in un camerone, tra risatine, colpi di tosse, gente che russa; quante volte, in gita con la scuola?
Eppure ciascuna di queste cose era nuova, perché inserita in un viaggio.
Nella mia vita fin qui ho camminato molto, ma a piedi non avevo mai fatto un viaggio.
Ho corso molto, ho pedalato molto, ho faticato molto, ma mai in questo nuovo senso.
Un viaggio è qualcosa che ha una partenza e un arrivo, ma soprattutto ha un percorso in mezzo al quale può accadere di tutto.
Tra il punto A e il punto B ci sono infiniti mondi.
Nessuna delle cose fatte in questi giorni era nuova; eppure è stata un’esperienza unica.
Camminare per ore al buio, sentendo solo i passi e lo scricchiolare delle foglie, mi era già capitato.
Camminare per ore, con uno zaino pesante: quante volte, in montagna?
Camminare in gruppo, scambiarsi battute, ridere, rimanere indietro e correre avanti, scherzare; dormire tutti insieme in un camerone, tra risatine, colpi di tosse, gente che russa; quante volte, in gita con la scuola?
Eppure ciascuna di queste cose era nuova, perché inserita in un viaggio.
Nella mia vita fin qui ho camminato molto, ma a piedi non avevo mai fatto un viaggio.
Ho corso molto, ho pedalato molto, ho faticato molto, ma mai in questo nuovo senso.
Un viaggio è qualcosa che ha una partenza e un arrivo, ma soprattutto ha un percorso in mezzo al quale può accadere di tutto.
Tra il punto A e il punto B ci sono infiniti mondi.
Forse è stato questo il senso del cammino per una squadra ciclistica come la Fundaciòn Contador: smettere di pensare la vita in termini di obiettivi da raggiungere, ma concentrarsi di più sul valore intrinseco del viaggio, del percorso fatto, del cammino, che contiene molte cadute, molte sconfitte, molta fatica che sembra non servire a nulla; mentre invece crea le basi per quel che saremo in futuro.
Arrivati davanti alla cattedrale non ci siamo sentiti sollevati, non ci siamo sentiti completi, soddisfatti, riempiti dalla sua visione, dalla sua presenza fisica di fronte a noi. La cattedrale si è rivelata un punto di arrivo effimero, un semplice punto che trae valore da quel che è venuto prima.
Non la meta, ma la strada. Non il traguardo, la volata per raggiungerlo, ma il cammino: la strada fatta insieme.
Arrivati davanti alla cattedrale non ci siamo sentiti sollevati, non ci siamo sentiti completi, soddisfatti, riempiti dalla sua visione, dalla sua presenza fisica di fronte a noi. La cattedrale si è rivelata un punto di arrivo effimero, un semplice punto che trae valore da quel che è venuto prima.
Non la meta, ma la strada. Non il traguardo, la volata per raggiungerlo, ma il cammino: la strada fatta insieme.
Con altri ragazzi zoppicanti torniamo, lentissimi, verso la cattedrale. Stiamo seduti sul muretto. Si propone di tornare in autobus. La fermata è lontana. Intorno è pieno di turisti e gente che scatta foto. Improvvisamente tutti si alzano; sono troppo stanca per chiedere dove stiamo andando, e come è stato per quattro giorni l’importante sembra semplicemente muoversi. Svoltiamo in una via laterale e ci troviamo davanti delle auto bianche. Sono taxi. Non mi sembra vero. Mi siedo dietro, respiro, mi appoggio al sedile e guardo fuori dal finestrino. La strada è velocissima. Ogni cosa è nuova. Non sono mai stata così contenta di essere in auto. Una stanchezza nuova, incomprensibile, mi lascia in uno stato di torpore. In questa posizione il piede che negli ultimi cinque km non mi ha lasciato in pace non fa più male. Rimarrei in auto delle ore, ma eccoci arrivati all’albergue. Una doccia, un letto, qualcosa da mangiare. Sono confusa, vorrei caminare ancora ma non riesco nemmeno ad appoggiare il piede a terra. Trascinandolo come gamba di legno guadagno il camerone, e poi il letto.
Se chiudo gli occhi vedo la strada, quella fatta e le molte ancora da fare. Vorrei partire subito, ma ora non si può.
Il sole va giù, è tempo di riposare.
Da qualche parte dentro di me vedo la strada: scorre ancora, passo dopo passo.
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