Settembre, tempo di tappe epiche e casalinghe.
Nell'insolita afa mattutina la Valcamonica si presenta come un desolato e soffocante scenario post-atomico, dove il sole appare rossastro e incerto nella foschia densa.
Ma quando una salita chiama bisogna rispondere, non importa che si tratti di un Passo Sella, di un Vivione o di un semplice cavalcavia nella bassa: la risposta de #ilorddellacontessa è pronta, decisa, scattante.
Ed eccoci così ai piedi di Montecampione: salita epica dall'aria decadente e retró.
L'aria è immobile, imprigionata nella cappa di caldo.
Chi si ricorda che tempo faceva quel giorno del '98 in cui Pantani si alzò sui pedali una, due, tre volte su un Pavel Tonkov sfiancato e presto sconfitto?
Qualche Lord era presente, quel giorno, e può dire con certezza che era un giovedì, il 4 di giugno: era stato bello vederli salire, mangiarsi i tornanti come se non esistesse la fatica.
Io ricordo solo le immagini della TV, sbiadite perché ancora non c'era l'Hd, ma quelle immagini bastano, e mi tornano in mente quando alzo la testa verso la strada dritta, un'unica striscia grigia che sale costante in mezzo al bosco: uno scenario in fin dei conti spoglio, insensato, che mai come ora fa apparire altrettanto insensata la fatica stessa della bicicletta. Forse era il tentativo di sublimare, superare, annullare questo assurdo che faceva alzare Pantani sui pedali una, due, tre volte; una volta ancora, purché l'agonia finisca presto.
La strada comincia a salire dopo un infinito rettilineo disseminato di capannoni, edifici scrostati, pali con appese locandine sbiadite che pubblicizzano il circo o serate danzanti ormai passate da anni.
Prima di attaccare la salita, una sosta al bar vince il premio come peggior caffè del 2016; ma sono dettagli.
La salita è dura, ma fino al laghetto, cioè alla località Montecampione, è in fin dei conti tutto ok. Solo proseguendo si capisce di entrare in nuovo grado di desolazione.
Muri con scritte scolorite inneggianti al Giro, murales, piante che invadono la carreggiata, e poi buche, buche ovunque, di ogni forma, profondità e dimensione. La natura si riprende i suoi spazi, radici invisibili rompono in crepe ordinate la strada, l'asfalto cede, si sgretola in sabbiolina che poi si ammucchia ai lati della carreggiata.
Proseguendo per alcuni tornanti il panorama finalmente si apre, compaiono qua e là seggiovie, baite, prati, finché improvvisamente, nel mezzo di una rotonda dissestata, la strada termina.
Siamo arrivati. In cima non c'è nulla: tracce di un passato di cui rimangono pezzetti sparsi qua e là nel prato di fronte al residence abbandonato, invaso dall'erba e dalle mucche al pascolo. Lascio la bici, mi arrampico sul prato e da una vetrata di quella che una volta era una sala ristorante guardo dentro: nella penombra polverosa le sedie stanno ordinate, capovolte una sull'altra, in attesa che tutto torni come prima. Chissà quante premiazioni, nei tempi d'oro dello sci: parcheggi pieni, cioccolate calde al bar, divise fluo, sci dritti, e Alberto Tomba da guardare alla TV.
Quando è successo, che tutto è cambiato?
Mi volto indietro, sul piazzale deserto sotto le seggiovie ferme i Lord spaesati mi guardano con aria interrogativa. Da qualche parte su questa salita, lontano dalla foschia e dall'afa, Pantani si alza sui pedali e scatta, una, due, tre volte.
Una volta ancora, purché l'agonia finisca presto.
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