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Cevedale



In una mattina di aprile l'inverno è ritornato, e noi, com'è ovvio, non eravamo pronti.
Il vento soffia troppo forte, il freddo è secco e pungente: siamo semplicemente fuori posto.
Non sto bene e ho le mani gelate: devo andarmene di qui più in fretta possibile.
La paura è purissima, fredda e precisa come una lama, è tutt'uno con l’immagine della mia debolezza di fronte al ghiaccio, che per una volta con me si diverte a giocare, riafferma il suo ruolo, e infine mi piega come una canna al vento.
Uno scenario mentale che ricordo come una distesa candida e pulita da tutto, da ogni preoccupazione e pensiero superfluo, per concentrarsi unicamente sul mio piccolo corpo che nel bianco della montagna spazzata dal vento è solo, e lentamente perde energia, sensibilità, calore, controllo; concentrarsi per recuperare le forze e aver salva la vita.
Un panico nuovo annulla tutto ciò che intorno e dentro di me si agita: immagini, ricordi, cause e conseguenze, legami, domande; non sono che pensieri superflui, insensati, seguirne il filo è dispendioso ed inutile, ed è il corpo a decidere per me di spegnere il cervello e dirottare l’energia verso qualcosa di utile, qualcosa che mi permetta, semplicemente, di conservarmi.
La vita tornerà presto quella di prima, ma non subito, non ancora.

Quando sto per scollinare verso la valle e capisco che è finita ho quasi le lacrime agli occhi.
Attraverso gli occhi umidi non vedo bene dove metto i piedi, ma sembra tutto in ordine qui, il manto nevoso è uniforme, mi affido a pensieri del tutto casuali per non ricordarmi delle mille crepe che di colpo potrebbero inghiottirmi. Mi sento del tutto superflua e questo pensiero è di una chiarezza disarmante. Eppure ogni paura è svanita. Sento le mani pulsare di dolore mentre il sangue caldo ritorna a scorrervi, continuo a muoverle sotto due strati di guanti, si riprenderanno, anche il naso si riprenderà, tra poco sarà finita e tutto tornerà come prima; ma poi scorgo, lungo la cresta che guarda verso il Trentino, dei pezzi di legno sbucare dalla neve, dei resti rigidi come braccia puntate verso il cielo, in un’accusa senza parole; e chissà quante dita congelate, chissà quanto dolore e sofferenza, quanti giorni come questo solo cent’anni fa, e dopo questo pensiero io e le mie mani non siamo più nulla, io e il mio freddo non contiamo niente, fantasmi silenziosi sembrano osservarci mentre raggiungiamo la cresta, e dall’altra parte finalmente la valle, finalmente il sole, una via di fuga, niente più ghiaccio verde ma neve cotta dal sole, rocce laggiù in fondo, forme di vita che paiono amiche, la traccia che ci porterà a casa. Capisco che essere salvi non è nulla di scontato, e lo apprendo come fosse una verità logica, qualcuno sorride guardandoci passare, ci sono dei soldati sulla cresta e ci guardano incamminarci verso la salvezza, un sorriso triste, il sorriso amaro di chi sa, osservano la felicità del ritorno a loro preclusa per sempre mentre la valle ancora attende, e molte croci staranno ordinate sui prati, passeranno inverni, primavere, arriverà l’estate e con lei i temporali, niente ha più senso, la baracca rimane lì e i soldati pure, guardano giù, non hanno volto, e mentre mi lascio scivolare a valle ho quasi paura a fare le curve, ho quasi paura che tutto questo non sia giusto, mi appare chiaro che salvarsi è un privilegio e che non bisogna sprecarlo. Vorrei dire qualcosa ma resto in silenzio, la discesa verso la salvezza non può essere in nessun modo sguaiata, non può essere più di quel che è, vorrei essere felice ma non lo sono appieno, sento mille occhi osservarmi dalla baracca là in alto mentre lenta me ne allontano, e allora farfuglio ringraziamenti, al vento faccio promesse silenziose, a chi non ce l’ha fatta prometto di non dimenticare, prometto di raccontare, prometto di ricordare sempre delle volte in cui mi sono salvata, per avere la forza di salvarmi di nuovo. Ora l’aria è più calda, e il dolore alle mani diventa un sottofondo indistinto. L’aria è più respirabile. Compare l’immensa morena e una traccia che ne taglia la superficie costeggiando un’enorme caverna di ghiaccio. Mi lascio portare. Ringrazio tutto e tutti in ordine sparso, dagli sci ai guanti alla lana agli scarponi. Fisso un punto lontano e osservo la valle avvicinarsi, finalmente senza neve, con qualche larice spoglio, lontano, mentre la morena si esaurisce, la neve è marcia, incontriamo altri sciatori che sembrano ignari di tutto. A destra compare e scompare un rifugio. La fine della valle si avvicina sempre più. Arriva al termine. Respiro, mi volto a guardare indietro una sola e unica volta.
Nel bianco abbagliante non sembra sia cambiato nulla.
Abbasso lo sguardo. Ci metto una vita a togliermi lo zaino. Rimango nel parcheggio come intontita, sento il sole che scotta sulla giacca, ma non tolgo nulla. Ogni oggetto e ogni cosa mi sembrano nuovi come se li vedessi per la prima volta. Dovrei mangiare e bere qualcosa, ma anche questi mi sembrano concetti nuovi. Bere una birra. Parole nuove, sensazioni nuove con cui essere cauti. Lontano, la montagna è bianchissima e accecante. Forse sorride.
I soldati vegliano sulle creste, presso la croce, il confine.
Dentro di me, altri confini si sono spostati per sempre.




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